Ego e Politica, due fenomeni inconciliabili?


"In fondo, l'umanità ha già tante verità filosofiche, tanta ispirazione etica, tante norme giuridiche, ecc. che non dovrebbe affannarsi a cercarne delle nuove. Basterebbe leggere le costituzioni di alcune nazioni, basterebbe leggere certe risoluzioni di quell'organismo che oggi viene denominato ONU per capire quante belle cose sappiamo scrivere. Ma il problema è più profondo, perché investe la coscienza stessa dell'individuo e la sua costituzione psicologica. Se noi non trasformiamo le cause della disarmonia, non potremo mai realizzare belle costituzioni o fare autentiche rivoluzioni sociali. Il dato essenziale è che l'uomo, per essere armonico e dare armonia, deve trasformarsi, deve si operare una trasformazione ma non all'esterno - per cambiare semplicemente strutture o sostituire il Prìncipe - bensì all'interno, per trasformare la sua stessa coscienza".
Raphael - da "Quale democrazia?" ed. Asram Vidya

Due complici a braccetto.
Leaderismo e competizione sono i segni distintivi della società occidentalizzata. Segni distintivi che permeano la società in ogni suo aspetto. Dalla scuola al mondo del lavoro, dallo sport al mondo dell'impresa, dalla pubblica amministrazione alla politica, tutto si caratterizza per una estenuante competizione spacciata per meritocrazia e finalizzata esclusivamente all'affermazione del leader. Una competizione che non trascura alcun mezzo pur di mettere in risalto le incredibili e taumaturgiche qualità del leader. Gli esempi sono scontati e nell'ultimo secolo, che si è caratterizzato tra l'altro per i continui progressi dei media e dall'uso che i leader ne hanno fatto, abbiamo esempi illustri, anche per le ripercussioni che il loro ego ha avuto nella società.
Leaderismo e competizione dunque. Due aspetti, due paradigmi, come due complici che vanno a braccetto, che alienano l'uomo dal rapporto con sé stesso, con la società, con l'ambiente. Due aspetti che evocano non tanto i regimi democratici quanto quelli imperiali in cui si afferma la visione del più forte, dell'eroe che grazie alla guerra, alla lotta, in una dimensione assolutamente contrappositiva, sconfigge il nemico e domina su tutti e su tutto. E infatti il linguaggio della politica ingloba le parole della guerra come “vincere”.

Io.
La politica, così come è intesa in occidente, trae le sue origini nella Grecia classica. E fin qui nulla di nuovo. In quasi tremila anni la democrazia è ancora un modello in continuo divenire e non ha ancora trovato un suo punto d'equilibrio, una stabilità.
Modello avversato da Platone, il quale intravedeva in essa il pericolo della demagogia al solo scopo di conservare il potere (massima consolazione dell'ego), la democrazia oggi fa i conti con l'anomalia principale che caratterizza l'uomo, appunto l'ego, maestro di demagogia, necessaria al suo sostentamento. Se per un verso il senso dell'io ha permesso all'uomo di sopravvivere alla storia - pensiamo all'ingegno degli individui - dall'altro, l'ego pone l'uomo in un perenne conflitto con i suoi simili.
Una delle caratteristiche fondamentali dell'ego, infatti, è la sua necessità essenziale alla competizione e questa spesso è causa di conflitto. Senza la competizione e senza la possibilità di mettere in risalto le sue peculiarità, l'ego non avrebbe motivo d'esistere.

Competizione.
In questi giorni, tra un'asfissiante afa estiva e l'afasia di un opposizione avvitata su se stessa, rinchiusa nel palazzo, Nichi Vendola – il populista al contrario – denuncia come la principale caratteristica dell'antropologia berlusconiana è la competizione. E infatti l'impianto sociale su cui si fondano le politiche dei suoi governi - in netta contraddizione con i principi della cultura e della morale cristiana, della stessa democrazia a cui pretende d'ispirarsi - si contraddistinguono per aver instillato, attraverso subdoli modelli mediatici di persuasione - avanzati soprattutto attraverso i format televisivi, tanto da diventare un modello sociale - una concezione della vita essenzialmente competitiva. Questo disegno pare essere entrato a far parte del DNA coscienziale di larga parte degli italiani, tanto da aver scisso il paese in due parti. La prima, sostenuta da una larga maggioranza, dai quali benefici la stessa maggioranza viene largamente esclusa, e l'altra, la quale pur sostenuta da una netta minoranza, raggruppa quella parte di società che pur sostenendo la necessità della competizione, non viene ammessa minimamente a partecipare, se non passivamente, da spettatore. Unici a ammessi al godimento, il leader, i suoi compari e gli ammessi alla competizione.

Gli altri.
Ecco che ci ritroviamo di fronte ad un paese in cui lo stato sociale è reso carta straccia, in cui la pressione fiscale è tutta proiettata sulle fasce economicamente più deboli, comprese quelle medie sempre più impoverite. C'è poi la scuola, il lavoro, la giustizia, diritti e doveri, alla stregua di beni oggetto di cui può disporre solo il più forte, quello che a prescindere dai mezzi e dai modi si afferma in una violenta lotta - che tante volte semina morte, sul lavoro, fra le mura domestiche, in carcere, ecc. - tra persone appartenenti alla stessa famiglia, quella umana e allo stesso paese, l'Italia. Ed è proprio questa perdita del senso di unicità del corpo sociale, che va perdendosi con il triste racconto berlusconiano. Politica e democrazia sono ormai uno strumento nelle mani di pochi privilegiati e autoreferenziali attori di fronte ad un vasto pubblico, come ipnotizzato di fronte a uno squallido spettacolo con il quale s'identifica fino alla dipendenza. Si avvalora in questo modo la preoccupazione di Platone quando nella Repubblica (Politeia, ndr) sosteneva che il pericolo del governo democratico è dato dall'uso della demagogia che muta in oligarchia, nel governo dei pochi, per poi involvere in tirannia, pur conservando le forme apparenti della democrazia. “...l'Oligarchia – afferma Platone - è un governo basato sul valore della proprietà, nel quale i ricchi detengono il potere e i poveri ne sono privati”.

Gnothi sauton.
Negli anni '50, Gandhi, il Mahatma che profetizzò l'indipendenza indiana, quasi come fosse un discepolo di Socrate diceva: Se vuoi che il mondo cambi, comincia a cambiare te stesso.
Pitagora, 2500 anni fa, presso la scuola di Crotone, insegnava ai suoi discepoli che la politica (l'ultimo livello della sua scuola d'iniziazione) non poteva che essere una prerogativa dei Santi, dei Puri, di chi, insomma, aveva attraversato ogni sorta di purificazione (lo scrivo in maiuscolo poiché graficamente la sua immagine disegna perfettamente la sua tronfia vanità intrinseca) dell'IO.
Allo stesso modo Platone, che era in fondo un pitagorico, sosteneva che solo i sapienti avrebbero potuto esercitare la politica con distacco e per il bene della polis.
“Ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi”. 
Tra le altre cose, Platone – e questo ci riconduce alla questione dell'inconciliabilità tra io e politica - insegnava ai suoi discepoli, prima d'ogni cosa, ad amministrare la "polis interiore" molto prima di dedicarsi al governo della polis che è nel mondo. Per questo si rifaceva al monito "gnothi sauton", "conosci te stesso", fatto proprio da Socrate e posto all'ingresso dell'Accademia.

Partecipazione.
“La punizione del saggio – è sempre Platone che parla - che rifiuta di prendere parte al governo è vivere sotto il governo di uomini peggiori di lui”. Molti, oggi, soprattutto tra i più giovani, schiacciati e poi disgustati dalla ferocia della competizione, preferiscono tenersi lontani dalla cosa pubblica pur sostenendone il peso. Un atteggiamento giustificato dal decadimento prodotto dagli oligarchi, non di certo dalla politica che resta di per se una scienza altissima se pur svilita dall'uomo e dal suo EGO spropositato: vanità delle vanità.
Ego e politica, dunque, necessitano di un accordo armonico, e soprattutto di un passo indietro da parte dell'ego, se si vogliono realizzare per davvero obbiettivi condivisi, salvo poi i disastri che dall'ego ne conseguono.
Condivisione più che competizione. Di questo ha bisogno la politica e particolarmente la democrazia per realizzarsi compiutamente.

Condivisione.
E' lo stesso Vendola, in questi mesi, mentre si consumano le ultime parole del fallito racconto della competizione liberista - del libero mercato accessibile a pochi capibranco - a parlare di luce, verità, bellezza, condivisione, bene comune, partecipazione, quali necessità per una politica che recuperi la sua dignità dimenticata. Tutti attori, nessuno spettatore. E' stato questo l'slogan nato dall'esperienza delle Fabbriche di Nichi, il movimento spontaneo nato intorno alla sua figura, e che si è rapidamente diffuso in tutta Italia. Quasi a indicare la volontà di un ritorno alla partecipazione democratica.

Oggi, dunque, l'umanità, la politica, la democrazia, i suoi attori, soprattutto quelli che rivendicano una più vera democrazia, per superare i limiti e i pericoli derivanti dalla competizione e dal leaderismo, hanno bisogno di rimettere al centro della discussione politica stessa, innanzitutto, una profonda riflessione sulla natura dell'ego e sull'uomo in quanto animale sociale necessitato.
 
E noi – per tornare alle parole di Raphael - sapremo declinare queste belle parole nel racconto del nostro futuro? Sapremo rappresentare la stigmate del cambiamento che comincia in noi stessi? Sapremo rinunciare a una parte di noi per il bene di tutti?

Chiudo con un'antica meditazione, l'Invocazione al dio Pan che è a conclusione del Fedro di Platone, affinché armonizzando azione e riflessione si possa produrre un nuovo racconto prossimo venturo, consapevole e condiviso.

"O caro Pan e voi altri dèi che siete in questo luogo,
concedetemi di diventare bello di dentro,
e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo
con quelle che ho dentro.
Che io possa considerare ricco il sapiente
e che io possa avere una quantità di oro
quale nessun altro potrebbe né prendersi né portar via,
se non il temperante".


Giuseppe Vinci.

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