Realtà


Come il fuoco è necessario per cuocere,
così tra tutte le varie forme di disciplina
solo la Conoscenza è il mezzo diretto per la Liberazione: senza la Conoscenza non può  esservi Liberazione
Samkara - Atmabodha

Quando parliamo di realtà solitamente ci riferiamo a quello che i nostri cinque sensi percepiscono, in altre parole il mondo così come lo avvertiamo.

I sensi, in quanto organi di percezione, fungono da intermediari tra l’oggetto di percezione, - il mondo, noi compresi - e la mente-soggetto percepente. Questo, nell’immediato, ci porta a credere che quello che la mente ha elaborato, in seguito alla percezione, sia la pura realtà e che al di la del percepito non vi è null’altro. A questa conclusione giunsero i filosofi Jonici, - i naturalisti - come Protagora che formulò il motto “l’uomo è misura di tutte le cose”.
Sappiamo, però, che ogni essere senziente, percepisce il mondo in modo diverso, potremmo dire personale, proiettando in sé stesso una diversa rappresentazione di quanto ha percepito. Infatti, se dovessimo chiedere a più persone di descrivere quanto percepito dopo aver mangiato una mela, riguardo il sapore, oltre alle difficoltà che incontrerebbero nel descrivere la percezione, avremmo come è noto, una grande varietà di rappresentazioni, spesso discordanti tra loro, anche se solo per pochissimi elementi.

La percezione può produrre interpretazioni tra loro discordanti degli oggetti percepiti, in soggetti diversi allo stesso tempo e in tempi diversi degli stessi soggetti. Insomma: la mela oggi, per me ha un determinato sapore, domani, la stessa mela ne potrebbe avere un altro; ancora, oggi, una stessa mela, ha per due persone un diverso sapore. Allora qual è l’essenza/sapore della mela? Forse sarà oltre la percezione sensibile?
Facendo seguito a questa riflessione Eraclito si espresse dicendo “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, ponendo l’attenzione sul fatto che lo stesso fiume oltre a non essere mai lo stesso e identico a sé stesso, viene per questo percepito sempre in maniera differente, accusando in tal modo, l’impermanenza del mondo fenomenico, simboleggiato dal fiume che scorre.
Non sarà forse che l’essenza del fiume in sé è da ricercare oltre il suo essere fiume che scorre, quindi oltre il suo essere fenomeno che appare in quanto scorre?

Ma allora quello che percepiamo cos’è, la realtà o quello che appare di essa?

Si introduce, in questo modo, l’indagine sulla realtà, attraverso la discriminazione sul dualismo di fondo: la realtà in sé, interna, permanente e assoluta, e la realtà esterna, apparente e impermanente.
La scuola che, in occidente, da Pitagora passa per Parmenide e che trova il suo culmine prima in Platone, poi in Plotino, e la scuola Vedanta, che in oriente, a partire dalle Upanisad vediche, partendo da Gaudapada, trova la sua massima espressione in Samkara, riflettono sul fatto che la “realtà in sé”, l’essenza delle cose, non è coincidente con l’apparenza.
Perché questo?


La mente proiettiva dell’uomo è in grado di “previsualizzare” un’idea, un progetto, un desiderio da realizzare. Una volta definito e fissato nella memoria il progetto si da inizio ai lavori per la sua realizzazione. Dalla vaghezza dell’idea, informe e astratta si giunge alla forma definita nello spazio e nel tempo. Un progetto ed una realizzazione, però, soggetti a continue modifiche e trasformazioni: un cantiere sempre aperto dentro e fuori della mente, dentro e fuori di sé e del Sé.
Allo stesso modo, potremmo considerare la realtà in sé, assoluta, permanente e costante, come la mente universale da cui tutto scaturisce, e considerare il mondo come “progetto” in fase di realizzazione.

Il mondo fenomenico, progetto impermanente è, dunque, l’emergenza progettuale che sorge dal sostrato permanente del Sé: affiora come un sogno, nella notte della coscienza e svanisce al suo albeggiare.
Come per gli uomini incatenati nella caverna platonica, noi percepiamo, l’ombra riflesso impermanente della proiezione onirica della mente universale. Noi stessi, per la parte fenomenica di cui siamo composti, siamo ciò che emerge sul sostrato della mente universale, come fossimo prodotto del suo sogno: ciò che appare e svanisce in un solo batter di ciglia rispetto all’eterno presente in cui si esplica il Sé Puro.

Le catene che ci tengono stretti alle pareti dell’apparenza/caverna, che ci costringono nei limiti del fenomenico e delle illusioni che lo stato onirico proietta, non permettono la pura percezione dell’essenza.
Da questa condizione nasce la falsa identificazione dell’essere con il fenomeno (io sono questo), con il riflesso del Sé, con l’emergenza temporanea e impermanente che sorge dal Sé, appare separato e “a sé stante”, ma che ben presto al Sé ritorna, al suo noumeno, senza lasciar traccia.
Quanto questo processo ci coinvolge con consapevolezza?

L’insegnamento platonico invita allo svelamento, l’aletheia, o come direbbe la tradizione orientale alla liberazione, moksa.

Per conoscere l’essenza delle cose, della vita universale, del suo senso, è necessario liberarsi dalle catene delle apparenze, è necessario uscire dalla caverna in cui è relegata la nostra coscienza fino a risalire la vetta della montagna, fino a risalire oltre il cielo, all’Iperuranio. Solo allora purificati, alleggeriti dal peso delle catene, dagli attaccamenti della quotidianeità, saremo in grado di risalire lievemente, ci eleveremo alla visione della pura realtà.


L’insegnamento di Samkara e di Platone, ma diremmo di tutta la Tradizione Iniziatica Universale, identifica la realtà alla conoscenza. Conoscere significa conoscere la Realtà, il Sé Supremo, l’Assoluto. Una conoscenza che non ha come meta la realtà, l’essenza delle cose, non è vera conoscenza, stabile e imperitura, ma erudizione di cose periture, transitorie e apparenti, che non hanno una realtà in sé e che sorgono sul palcoscenico della coscienza universale, nel limite del tempo e dello spazio, del prima e del dopo. Mentre, la realtà, l’essenza, abbiamo detto, è di là dal tempo e dallo spazio, è nell’eterno presente.
Questa soluzione, inevitabilmente, ci porta a dover assimilare, meglio ad identificare la conoscienza, oltre che con la “liberazione” e con la Realtà, anche con la Coscienza Universale, poiché in fondo è, questa, Testimone, spettatore, sperimentatore, immutatile e imperturbabile del mondo fenomenico.

Se contemplare quello che c’è oltre l’Iperuranio, oltre il cielo, insomma la Realtà, significa riconoscersi in essa e se il processo di liberazione e risalita della coscienza porta a questo significa che la stessa coscienza, temporaneamente individuata, di là dal contingente è identica alla Realtà, alla Coscienza Suprema.
L’invito a sperimentare oltre il visibile, a non negarci l’altra esperienza, a conseguire la realtà che è in nuce nell’umana semenza è Dante, nel XXVI canto dell’Inferno:

"... Non vogliate negar l’esperienza / di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza/ fatti non foste per viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza".

Dante, come Socrate, ci invita alla conoscenza profonda della nostra essenza che è di la dalla bruta apparenza: “considerate la vostra semenza…”, semenza che è virtù platonica.
La via della Conoscenza ci conduce a conoscere la Realtà e a riconoscerci in essa. E’ insita nell’uomo l’aspirazione alla Realtà. E’ parte integrante della sua natura, così come le funzioni spontanee del vivere.
A differenza degli oggetti che si esperiscono con i comuni sensi, la Realtà non rientra tra queste categorie di oggetti che nascono e muoiono.


Si cade in un duplice errore se si giunge a credere che l’esperienza e il mondo sono vacuità, pura illusione. Dal momento in cui si esperisce qualcosa, il contenuto di tale esperienza non può essere considerato nullo. L’esperienza e i suoi oggetti non sono reali solo se posti in relazione alla Realtà Ultima. L’esperienza e i suoi oggetti sono e non sono allo stesso tempo. Esistono, sono una realtà per i sensi, poiché sono della loro stessa natura. Non esistono, non sono una realtà, dal punto di vista della Realtà Ultima, vera e stabile, assoluta.
Le esperienze, difatti, non sono universalmente valide per tutti gli esseri senzienti. L’esperienza di uno potrebbe contraddire l’esperienza di un altro ed essere considerata giusto un punto di vista, un opinione. L’essere identificati alla propria individualità egoica ci porta a negare l’esperienza dell’altro, alienandoci nell’esperienza esasperata.

La natura di chi cerca la verità è tale da andare oltre questa posizione limitante. L’iniziato è alla ricerca della stabilità, di “un centro di gravità permanente”, di un’esistenza incondizionata, che non scaturisca dal bisogno di colmare la nevrosi egoica, ma che sia il moto naturale e puro della più profonda natura dell’essere. Utilizzando un termine improprio (se usato nel senso comune), possiamo dire che il “desiderio” profondo del puro conoscitore è trascendere i propri limiti che lo àncorano al relativo, al divenire transitorio, illusorio.

giuseppe vinci

Commenti

Anonimo ha detto…
Interessante pagina che riepiloga, unificandole in una visione unitaria le più elevate riflessioni filosofiche del passato sull'Universale, al limite del teologico. Perchè al di là di questa tensione dell'Uomo- essere particolare ed imperfetto- verso la Realtà Ultima - per sua stessa essenza perfetta e immutabile- c'èsolo l'idea di Dio (quale che esso sia).E al di quà, nella piccola vita di ogni giorno, l'angoscia dell'imperfezione, che in prima persona mi attanaglia,finisce con l'essere l'unica certezza.

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