La Via del Derviscio. In ricordo di Gabriele Mandel Khan, Sufi eccentrico.



Tradizione e dottrina iniziatica nell’Islam. 
In ricordo di Gabriele Mandel Khan, Sufi eccentrico.

Gabriele Mandel Khan è tornato alla casa del Padre il 1° luglio scorso dopo una lunga malattia.
Sufi eccentrico e con un ego smisurato, amava sempre parlare di sé, delle sue innumerevoli esperienze. Mandel adorava essere al centro dell'attenzione incantando discepoli e uditori anche quando non suonava il Ney, il flauto della tradizione sufi, strumento d'incantazione. E infatti, nonostante il suo carattere eccentrico, il Maestro, grazie anche alla sua cultura enciclopedica e all'innata capacità retorica, da fine oratore, era in grado di inchiodare il pubblico per ore senza annoiarlo. Insomma sapeva raccontare, come un vero (in)cantastorie.

Lo conobbi la prima volta nel lontano 1990 a Roma parteciapando al convegno Pitagora 2000, in cui si confrontavano Sufi, Valdesi, Ebrei, Buddhisti e Liberi Muratori, sui temi della conoscenza di Sé. Da allora siamo rimasti sempre in contatto con telefonate, e-mail e rari incontri. Nel 2004, anno della fondazione della Rivista di Studi Tradizionali "Sé Metafisica Realizzativa" (da me diretta fino al 2009), pubblicai un breve saggio sul sufismo, "La Via del Derviscio", che ripropongo qui di seguito. L'ispirazione a scrivere questo intervento scaturì in seguito alla pubblicazione dell'ennesimo libro del Mestro Mandel, pubblicato per i tipi Bompiani, La Via del Sufismo.

Amico e Maestro di Franco Battiato, fine ceramista di fama internazionale, docente universitario, suonatore di Ney, l'eccentrico Shaikh Gabirele Mandel Khan è statoVicario generale (khalifa) per l’Italia della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti fondata a Istànbul nel 1704, l'equivalente di un Gran Maestro della Massoneria (ordine iniziatico tradizionale) a cui è stato affiliato fino alla sua dipartita.
As-Salaam 'Alaikum wa rahmatullah (che la Pace di Dio sia con tutti noi).




La Via del Derviscio

I Sufi, detti anche Dervish (nella lingua persiana), possono essere considerati a pieno titolo la parte illuminata e iniziatica dell’Islam. I Sufi, originariamente, provengono da quella regione del medio oriente, circostante il Tigri e l’Eufrate, che dalla Persia, l’attuale Iraq, risale fino in Turchia, ai monti dell’Anatolia. In queste valli sono nati il Mazdeismo e lo Zoroastrismo, e ben prima della venuta di Maometto (Sigillo dei profeti) e dell’Islam, confluirono e si diffusero armonicamente la dottrina pitagorica e il platonismo, le filosofie mistiche dell’india, il buddhismo e il Tao, le dottrine ermetiche e l’alchimia, l’ebraismo prima, poi il cristianesimo e il neoplatonismo. La letteratura derviscia è infatti preziosamente intrisa dei lasciti dell’humus di tutte le tradizioni che hanno attraversato queste terre. Quasi sempre avverso dalla religione ufficiale, quale rappresentante allo stesso tempo della legge civile, e nonostante ciò, il sufismo è solo con l’Islam che si diffonde, in segreto, in tutti i paesi che si sottomettono (muslin) alla ‘Legge del Corano’. L’Islam e il Corano sono per il sufismo lo strumento di diffusione tra le genti che cercano Dio di là dal dogma, attraverso l’Arte. Il sufismo, infatti, insorge contro la religione dogmatica e legalistica, contro quei riti, doveri e divieti, imposti e osservati solo esteriormente, evocando invece, un rapporto con Dio, gioioso e pacato, armonico e spirituale, insomma mistico.



Essenzialmente il Sufismo, che nel variegato panorama islamico, si pone al di sopra di ogni obbedienza religiosa, è un metodo iniziatico, un percorso graduale e ascendente di perfezionamento interiore. Il culmine di questo percorso, che si svolge attraverso la Conoscenza della Legge di Dio, meditata, interiorizzata e sperimentata, conduce, grazie alla catarsi
interiore, al riconoscimento coscienziale e quindi alla realizzazione dell’identità dell’anima umana con il Divino.
La Tradizione Derviscia dispone di un vastissimo repertorio letterario, di storie, favole, racconti che non hanno un destinatario ben definito. Questi racconti, sono elaborati in modo tale che, l’ascoltatore, chiunque esso sia, non importa se iniziato o meno, possa intenderli in base al proprio livello di consapevolezza e al proprio stadio evolutivo. Al pari dei miti, dei koan dello Zen, come delle parabole evangeliche, queste storie, sono il supporto che conduce alla catarsi.

Un tale volle chiedere a un folle di Dio: Dimmi, cosa è mai questo mondo? Cos’è mai questa nostra immensa dimora?. Quegli rispose: Questo mondo di gloria e d’infamia è simile ad una palma dagli infiniti colori. Se qualcuno sfregasse la sua corteccia con le mani, si scioglierebbe come cera. Ma essendo fatto realmente di cera, che altro può essere? E quegli infiniti colori in realtà sono pure apparenze! Poiché tutto è pura unità, ogni dualità è qui inconcepibile, per cui non ha senso dire io e tu. L’interminabile scala della creazione si snoda attraverso infiniti io e noi, e per questo è così facile cadere dai suoi gradini. Più in alto vuoi salire e più stolto ti dimostri, giacché scivolando conoscerai una caduta più rovinosa. Se non morrai a te stesso per vivere in Lui, sarai considerato un ribelle, giacché avrai scelto di associarti a un pugno di mosche. Ma se vivrai in Lui, potrai conoscere il mistero dell’unità: unità purissima, non volgare associazione.

Come si evince dagli aneddoti – hadîth – riportati dall’opera di Farid Ad-din Attar, uno dei massimi autori della tradizione letteraria Sufi, nella cultura persiana del medioevo, sono presenti, fuse in un tutto armonico, le diverse dottrine orientali e preislamiche del bacino mediterraneo strettamente intrecciate alla tradizione coranica.
Il mondo fenomenico, immensa dimora, è visto come cera, pura illusione che si dissolve fra le mani non appena queste entrano in contatto con la realtà ultima dell’oggetto dei sensi. E’ come il gioco apparente dei nomi e delle forme, come tu e io apparentemente separati e distinti, dai limiti della coscienza individuale, abituata alle false identificazioni dell’essere – l’io e il corpo - che produce la volgare associazione. La realtà, invece, è pura unità e, per conoscere il mistero di questa profonda realtà è necessaria la catarsi: morire a se stessi, al proprio ego illusorio, fittizio e contingente, per vivere in Lui.

Ma l’interminabile scala della creazione si snoda attraverso infiniti io e noi, il mondo fenomenico, la manifestazione universale, è fatta di nomi e forme illusorie, di riflessi cangianti dell’essere puro e pertanto è facile, per il ricercatore, per il viandante distratto, cadere, lasciarsi ingannare e illudere lungo il percorso di risalita che porta all’unità purissima.



E’ bene chiarire a questo punto che il sufismo essendo un percorso mistico è ben distinto dall’ascetismo. Per l’asceta il mondo è considerato fucina della corruzione e delle tentazioni. Pertanto, egli si ritira dal mondo fenomenico. E’ ossessionato dal pensiero del peccato, veste quindi i panni del penitente che ha timore di Dio, e si proibisce ogni gioia mondana.
Il mistico è un amante di Dio, che attraverso la pratica iniziatica riconosce la sua origine divina e lavora a ristabilire l’armonia originaria. Sperimenta così la gioia, la felicità e l’estasi di essere riamato. L’iniziazione Sufi è vissuta, quindi, come via di ritorno a Dio, unità purissima, attraverso un percorso a tappe ben definite, (apprendista, compagno, maestro) grazie all’ausilio di chi ha già affrontato il viaggio, lo shaykh, il maestro.
Dunque la via – Taryqa – del Derviscio è una via mistica, silenziosa, che passa attraverso la profonda meditazione del sé, attraverso il riconoscimento dei limiti della propria coscienza, mediante la rettifica del substrato su cui la coscienza poggia, e che finalmente si sublima con la purificazione della coscienza stessa, fino all’identità con l’unità purissima.

La via del Derviscio, è anche via d’amore che si realizza attraverso l’estasi, per mezzo del lavoro, dell’arte - la musica, il canto, e la poesia - e tende alla unità dell’amante, - l’iniziato – con l’amato: Dio, Allah. A proposito dell’arte
la musica – dice Gabriele Mandel Khan – è l’arte più spirituale, è una espressione immateriale di quel bello che è testimonianza della bellezza di Dio.
La letteratura Sufi, in particolar modo la poesia, che tanto ricorda la poesia d’Amore del Dolce Stilnovo, dei Fedeli d’Amore e dei Trovatori, è densa di simboli e di riferimenti all’arduo lavoro, necessario per il conseguimento della Conoscenza quale meta ultima di questo amore.
Un innamorato, sconvolto dagli eccessi della passione, si addormentò singhiozzando nella polvere della strada. Poco dopo l’amata si ritrovò a passare per quella strada e vedendo costui ignaro e assopito, scrisse su un foglio un conciso messaggio e lo infilò in una manica della sua veste. Poi si allontanò in silenzio. Al risveglio l’innamorato lesse il messaggio e imperversò in lacrime amare. C’era scritto: O silente, alzati, se sei mercante che fiuta l’affare! Se sei asceta, veglia tutta la notte fino all’alba, e sii umile servo di Dio! Ma se sei innamorato, vergognati, il sonno non si addice agli occhi dello amante! Vero amante è colui che di giorno misura il vento e di notte sfida la luce della luna con l’ardore del proprio volto! Ma tu, o creatura ottenebrata, non fai ne questo ne quello! E allora smetti di vantare il tuo falso amore per me!. Se un innamorato dorme in un luogo che non sia il sepolcro, io dico che è innamorato, certo, ma di se stesso. E io esorto te, che nell’incoscienza venisti all’azione, a dormire tranquillo: tu non sei all’altezza del compito!
Anche nella ricerca della verità è necessaria la moderazione. Anche e soprattutto nella ricerca di Dio, gli eccessi della passione portano, attraverso il dogmatismo prima e il fanatismo poi, al sonno dello spirito e a respirare la polvere della strada.

L’amata, simbolo dell’anima pura e incorruttibile, di platonica memoria, comunica e si ridesta durante lo stato di sonno profondo, quando le identificazioni dell’ego sono a riposo, e quando la coscienza è libera dall’ignoranza della via/vita profana. Al mercante, l’uomo che vive per il proprio ego, all’asceta, colui che è ancora in cerca del Dio, e all’amante, all’iniziato che non ha ancora trovato l'Amato, non è concesso il sonno. Il lavoro comunque, per l’individualità egoica, sottoposta alle leggi della manifestazione, non ha mai termine. Il vero amante, però, sfida le tenebre della ignoranza e gli impedimenti, gli ostacoli, le impervie del vento fenomenico. Il vero amante illumina il suo percorso con l’ardore del proprio volto: non ama il proprio ego apparente e transitorio, ma l’Amata, immagine speculare, perenne, dell’Amato. Il percorso che conduce all’Amato, necessita di azione vera e pura, profonda e silenziosa, al riparo dalla polvere della strada, costante e infaticabile, degna del percorso intrapreso, all’altezza del lavoro che si è assunto. L’ipocrisia e la menzogna, la mollezza e il sonno, lungo la via, conducono alla inazione e all’offuscamento della anima, a piangere le lacrime amare dell’incoscienza di chi resta schiavo delle apparenze.

 
Altro simbolo eloquente nella mistica sufi è l’uccello.
Nel patrimonio letterario di tutto il medio oriente islamico – probabilmente di eredità platonica - l’uccello è il motivo simbolo dell’anima umana caduta dal nido dell’albero primevo. Al pari dell’Adamo decaduto - prigioniero dei frutti dell’albero del bene e del male, della tradizione Biblica - l’anima– uccello resta impigliata nella retedel corpo–mondo fenomenico. Questa figura simbolica, presente anche nelle Upanishad , trova il suo corrispondente supremo in Simurgh, la Fenice, simbolo di Dio -Uccello–Anima-Suprema - che nidifica sull’albero della vita. Queste anime, fuggite dalla prigione in cui erano incappate – il mondo illusorio - vanno alla ricerca di Simurgh, loro re, che abita le più alte vette del mondo. Centomila uccelli partono, ma come abbiamo detto, il viaggio è lungo e impervio. Gli uccelli esitano, ognuno avanza pretesti, dubbi e debolezze. Solo in trenta giungono presso il grande nido della Fenice. La loro guida - shaykh - è l’upupa - nel Corano figura come messaggera di Salomone - che a volte dolcemente, altre duramente, risponde alle domande e risolve le indicazioni del viaggio.
Tutti gli uccelli presero ad accampare, incoscienti, scuse e pretesti, dando voce alla propria ignoranza e chi tacque molto confabulò dietro le quinte. . . . Come avrebbero potuto simili creature giungere sino alla Fenice? . . . Se un sorso di vino ti atterra, o prode, come potresti berne un’intera botte? Se non possiedi neppure la forza di un atomo, come potresti unirti al sole? . . . Tutti gli uccelli, a quel punto, si accalcarono intorno alla upupa per interrogarla. . . . L’upupa così rispose: O inconcludenti, da cuori a tal punto inariditi come potrà stillare autentico amore? Miserabili creature, fino a quando durerà la vostra ignavia? Passione e aridità non possono coesistere e chiunque aprì gli occhi all’amore andò a giocarsi la vita a passo di danza. Sappiate che quando Simurgh, come sole splendente, mostrò dietro un velo il suo volto, proietto sulla terra ombre infinite che poi contemplò col suo purissimo sguardo. Fece dono al mondo della sua stessa ombra da cui sorsero incessantemente uccelli infiniti. I disparati volti degli uccelli del mondo non sono che il volto del bel Simurgh: sappiatelo, o ignari. Solo riconoscendo una simile verità, potrete comprendere la relazione che esiste tra voi e quella augusta presenza, ma poi guardatevi bene dal divulgare un simile segreto. . . . Se Simurgh non si fosse mostrato, mai avrebbe proiettato la sua ombra e nessun’ombra sarebbe mai sorta sulla terra, essendo ogni ombra apparsa sin da principio là ov’egli dimora. Se non hai occhio per Simurgh significa che il tuo cuore non è simile a specchio. E infatti, non potendo sguardo umano contemplare una così divina bellezza né sostenere tanto fulgore né giocare allo amore con un simile prodigio, egli nella sua infinita grazia volle creare per noi uno specchio, che ha sede nel cuore. E lì guarda, o veggente, se desideri contemplare il suo volto!
Nella tradizione araba e persiana il verbo degli uccelli è il simbolo della lingua esoterica per eccellenza. Nella XXVII sura del Corano, Salomone alla guida di un armata di uomini, genii e uccelli dice:
O gente, ci fu insegnato il linguaggio degli uccelli ...
Il viandante, l’anima-uccello, l’iniziato, il sufi, sa scorgere nella illusoria molteplicità del mondo fenomenico, i segni del Reale, dell’arcano ineffabile.
Nel mondo fenomenico, le anime individuate, i centomila uccelli, apparentemente separati dall’Amato, Simurgh, sono in realtà il suo riflesso manifesto, la proiezione dell’Essere Supremo nello specchio del mondo: altro simbolo della tradizione Sufi. Qui lo specchio si rifà al concetto ermetico del cosmo-microcosmo, usando il gioco analogico degli opposti:
ciò che è in basso è come ciò che è in alto, per fare il mistero della cosa una. 
Dice Mahmud Shabestari(?- 1320):
Sappi che il mondo intero è uno specchio, in ogni atomo ci sono cento soli fiammeggianti. . . . In ogni granello di miglio si cela un universo; . . . Ogni punto, nella sua rotazione in cerchio, è ora un cerchio, ora una circonferenza che gira.
Il velo dell’illusione copre, al profano – l’infedele - la vista dell’Amato. La condizione di ignoranza metafisica, l’ignavia, vela la realtà ineffabile e la rende invisibile a chi non sa giocarsi la vita a passo di danza, a chi non sa rifiutare i propri pregiudizi e schematismi, a chi resta arido nel cuore, e inconcludente nell’azione. Nella pratica Sufi, ricerca della Verità, silenzio, studio e meditazione, amore e coraggio, umiltà, azione e rinuncia, liberazione dall’ego, vigilanza e perseveranza, sono le qualità necessarie per affrontare il viaggio, per purificare l’anima nel fuoco ardente di Simurgh - la Fenice - per rinascere nell’unità purissima, nel Regno dell’Amato.


Concludo questo approccio alla tradizione Sufi, riportando alcune considerazioni di Gabriele Mandel Khan, tratte dal suo ultimo lavoro editoriale, di cui ne consiglio la lettura.
Il cammino del Sufi - dice Mandel - è dal buio alla luce, attraverso stadi intermedi. Il Sufi emblematicamente opera sul proprio io, che da pietra grezza diventa pietra levigata e squadrata sino a giungere al grado di “uomo perfetto: al-Insan al-Kamil. ... E’ allo stesso tempo [il sufismo] chiusura iniziatica e confronto universale. Dalla iniziazione rituale dell’individuo essa giunge a porsi come ideale regolamentatore di una società universale.
Questo è lo spirito del sufismo. Quello, cioè, di una fratellanza universale che, pur partendo dal fondamento religioso dell’islam, va ben oltre la contingenza religiosa e culturale dell’islam stesso. Ogni sufi partecipa agli incontri rituali della Tekké – la confratenita - guidata dal Maestro, capo della confraternita, che è l’erede diretto della baraka, il carisma iniziatico, trasmesso ininterrottamente – da qui il concetto di tradizione sufi - dal fondatore della confraternita.
Le riunioni della Tekké si distinguono in due momenti principali. Uno dedicato all’istruzione rituale, alle discussioni, alle delucidazioni, ai postulati e a tutto quanto, sempre sotto la guida e a discrezione del Maestro, possa servire alla progressione spirituale dei Fratelli e della Tekké. L’altro è dedicato al dhikr, la recitazione rituale di quello che, nella tradizione orientale, è chiamato mantra e che con molta approssimazione, noi occidentali assimiliamo alla preghiera. Ma il dhikr come il mantra per la loro natura vanno ben al di là della preghiera così come è intesa in occidente. Non si tratta di implorare il Dio con richieste e pentimenti, ma di porsi attraverso la potenza della parolalogos recitata, ritmata, nella condizione necessaria - l’incantazione - per una buona meditazione e per porre la coscienza individuale e individuata nella condizione di una effettiva elevazione spirituale.


Ogni confraternita è autonoma e sovrana e, segue un proprio indirizzo iniziatico rituale che varia in base alla cultura del luogo e dei componenti. Ecco che fra le caratteristiche peculiari del sufismo vi sono la differenza e la diversità che arricchiscono e rendono universale il percorso iniziatico. Vi è dunque, nel panorama del sufismo, una varietà di confraternite con diversità di comportamenti rituali, preminenze dialettiche, a volte all’apparenza contrastanti tra loro, ma tutte dirette attraverso il misticismo all’Unico Esistente secondo il detto “Tutte le strade conducono ad un'unica meta.”

giuseppe vinci



Bibliografia essenziale:
Gabriele Mandel, La Via al Sufismo, Bompiani 2004; La danza dei dervisci giranti, Cerriglio, Torino 2003; Sufismo e poesia (con CD), Edizioni d’Arte Il Torchio di Porta Romana, Milano 2000;
Il Sufismo vertice della piramide esoterica, Sugarco, Milano 1977; Storia del sufismo, Bompiani 2001. Farid Ad-din Aţţar, Il Verbo degli Uccelli, SE, Milano 1997. al’Arabi al Darqawî, Lettere di
un Maestro Sufi, SE, Milano 1997. Titus Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’islam,
Mediterranee, 1979. R. Guenon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, Adelphi, 1997. A. Ventura, L’esoterismo islamico, Atanor, Roma 1981.

Note:
Farid Ad-din Aţţar, “Un tale interroga un
folle”, da “Il Verbo degli Uccelli”

E’ da notare come le tre tappe dell’iniziazione sufi corrispondono analogicamente ai tre gradi dell’iniziazione massonica.

Gabriele Mandel Khân è Vicario generale per l’Italia, della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti, uno dei più antichi ordini tradizionali sufi. E’ direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte all’Università IULM di Milano; già docente al politecnico di Torino; Direttore della Facoltà di Psicologia all’Università Europea UET di Bruxsells; co-fondatore dell’Università Islamica di Ibn Roshd di Cordoba in Spagna. E’ artista versatile: tra i più importanti ceramisti islamici contemporanei. Ha pubblicato diversi lavori sul sufismo.

Farid Ad-din Aţţar, “L’innamorato
dormiente”, da “Il Verbo degli Uccelli”.

“Tu sei l’Uccello dallo scuro colore, . . .Tu sei principio senza cagione della tua onnipresenza, tu dal quale tutti gli esseri viventi sono nati”. ... “Due alati, ben congiunti amici, volano attorno allo stesso albero, di ramo in ramo: uno dei due mangia il frutto del pippal; l’altro invece lo
guarda senza mangiare”. Svetaśvatara Upanişad IV, 4; 6.

Ermete Trismegisto, Tavola di Smeraldo.
Gabriele Mandel, La via al sufismo –
Nella spiritualità e nella pratica. Bompiani.
2004

Da: Sé Metafisica Realizzativa - Rivista di Studi Tradizionali - Solstizio d'Estate 2004
a Cura del Centro Studi Tradizionali Sé - Fasano (BR)

Commenti

Unknown ha detto…
L'eccentricità non è propria al sufismo, né lo è la decorazione di sé. Si deve dire che entrambe sono condizioni dell'essere anti metafisiche e anti tradizionali. Sono allibito che non si arrivi a capire questo e, nel contempo, essere interessati alla metafisica. Sarebbe impossibile e contraddittorio identificarsi al Centro coltivando la periferia di sé.
giuseppe vinci ha detto…
L'eccentricità non è propria alla Via iniziatica, tutta. Fino a quando porteremo nel nostro viaggio il fardello dell'ego saremo sempre soggetti ai suoi condizionamenti.
Viaggiare a mani vuote, ignudi, senza fardelli, è questo il segreto. E la Via serve anche questo, a liberarsi dal fardello. E' come attraversare il filo del funambolo senza alcun sostegno, senza l'asta. Cosa che procura non poche vertigini a chi non è disposto ad abbandonare l'Io per accontentarsi di un più umile io. Questo è l'Asparsa.
Unknown ha detto…
Un detto africano cita poeticamente così: più leggeri si è meglio si danza.
Naturalmente questo è un principio e, in quanto principio, non può essere assoluto e deve prevedere la possibilità di una o diverse eccezioni. Queste eccezioni dovranno però essere la conseguenza di intenzioni sempre rivolte alla centralità spirituale. Sono considerate eccezioni, per ciò che si riferisce al sufismo, i Malamatiyah, considerati nell'Islam i prediletti di Allah. La loro è un'eccentricità che ha la funzione di celare una vicinanza all'Assoluto che creerebbe disagio e sconcerto nelle persone comuni. A questo scopo i Malamatiyah mostrano di sé una maschera di normalità, spesso deprecata da chi si aspetterebbe miracoli al posto di personalità che sono incuranti delle norme etiche e sociali. In tutti i casi è sempre ferma la preferenza dell'anonimato, in chi è consapevole dei princìpi, nonostante questa consapevolezza, quando non sia messa in atto nel proprio agire, resti sola e triste nel suo drammatico inutilizzo.
Anonimo ha detto…
Infatti Gabriele Mandel era tutt'altro che egocentrico, malgrado gli piacesse farlo sembrare. E, guardacaso, lo sembrava proprio a chi lo era per davvero. Potere della psicologia!
giuseppe vinci ha detto…
Sarebbe opportuno firmare i commenti.

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