Palmina, 30 anni dopo. Cronaca di una città dolente.




Ricevo e pubblico volentieri: di Bruno Marchi, aderente al Circolo Sinistra Ecologia Libertà - Fasano.

A quasi trent’anni di distanza si torna a parlare del caso Palmina Martinelli, in televisione, stasera, nel corso di “Chi l’ha visto?”, il popolare programma giornalistico dedicato a persone scomparse, ma anche ad alcuni misteri italiani irrisolti.
La vicenda in sé è riassumibile in poche righe e vale la pena farlo poiché in tanti, soprattutto giovani, non la conoscono se non per un vago “sentito dire”.
Nel novembre 1981 Palmina, una quattordicenne appartenente ad una famiglia proletaria, si diceva una volta, viene trovata ustionata e agonizzante a casa sua. Morirà, dopo atroci sofferenze, non senza essere riuscita a parlare e a dire che l’avevano cosparsa di alcol e dato fuoco perché rifiutava di prostituirsi. Successivamente la giustizia assolverà i principali sospettati, Enrico Bernardi e Giovanni Costantini, anch’essi molto giovani, poco più che ventenni. Ma, i dubbi e una verità mai veramente scoperta ancora oggi sussistono.
Il fatto di cronaca è ancora ripetutamente ricordato in articoli di giornali o riviste sociologiche. L’immagine di Palmina, post-moderna Giovanna D’Arco, è stata spesso “utilizzata” come simbolo femminista e testimone della lotta per un totale affrancamento delle donne dallo sfruttamento e dal maltrattamento; lotta, purtroppo, oggi approdata in una vuota e ipocrita formula quale è quella delle “pari opportunità”. “Vuota e ipocrita”, poiché di donne rese schiave, soprattutto sessualmente, ve ne sono ancora fin troppe: dalle ragazze africane e slave messe in vendita lungo le strade di periferia alle escort di lusso infilate nei letti dei potenti; dalle “veline“ televisive alle giovani rese alessitimiche dalla imperante cultura edonistica che le vorrebbe sempre eleganti, belle, e abbronzate, ma che sempre più frequentemente non possiedono la grammatica dei sentimenti e con difficoltà riconoscono la qualità e l’importanza degli affetti. Per i loro pari dell’altro sesso, naturalmente, le cose non vanno meglio.
Trent’anni fa la città di Fasano fu sbattuta in prima pagina e i mass-media dell’epoca, anche se non potenti come quelli odierni, lavorarono con i soliti luoghi comuni e pregiudizi sul meridione. Per esempio, i servizi di cronaca dei telegiornali RAI furono montati in maniera tale che della piazza di Fasano si vedesse solo lo scorcio dove campeggiava il cartellone di un cinema a luci rosse. Non senza colpa, poiché le inquadrature omettevano artatamente i cartelloni delle altre tre sale teatrali e cinematografiche (sì, ce n’erano ben quattro, in un’epoca in cui nei paesi del comprensorio non ve n’era nemmeno una). A nessun giornalista venne in mente di dire che a Fasano si proiettavano anche film “d’essai” e che erano allestite dignitosissime stagioni teatrali a prezzi modici, così come fu taciuto che la Biblioteca Comunale, già da allora, contava su un catalogo di migliaia di volumi … per fare alcuni esempi.
Ma cos’era all’epoca Fasano? In un mio articolo, pubblicato nel 1987 dalla Rivista di Cultura “Fasano”, la definii “città deviante”. Non una specie di Gomorra, niente a che fare con le tragiche fosche tinte con le quali Roberto Saviano ha dipinto Scampia, bensì un luogo collettivamente “deviante” in quanto, proprio a partire dagli Anni Ottanta, aveva elevato a cultura la sub-cultura del traffico illecito di sigarette e dell’eroina che falcidiò un’intera generazione. Una sub-cultura che ha imperato per oltre dieci anni e contro la quale pochi si sono battuti, tra tutti un manipolo di pazzi temerari sulle macchine volanti che si raccolsero attorno alla Cooperativa “Mondo Futuro” o i ragazzi della FGCI o altri giovani ancora che si riunirono sotto la testata di una rivista autoprodotta dal nome evocativo: “Zero e dintorni”.
Già da allora Fasano era una città che non si poneva domande ed era parecchio infastidita dal clamore mediatico che suscitavano fatti come quello di Palmina o, una decina di anni dopo, come quello di Valerio Gentile, brutalmente assassinato; una città che in TV poteva essere ridicolizzata in un solo “Giorno in Procura”. Una città che strenuamente si difese dall’accusa di “devianza collettiva”, scindendo il bene dal male e confinando nella zona “case minime” quest’ultimo, rassicurando così gli ansiosi piccolo borghesi che, però, non trascuravano di fare investimenti sulle sigarette (perché quando al largo di Torre Canne arrivavano le navi cariche di “bionde”, si sa, oltre alla squadra di vedette, scafisti e scaricatori, ci voleva denaro contante). Una città che si sgolava (attraverso i suoi rappresentanti istituzionali che come lupi mai sazi oggi si vedono e rivedono in giro a “far politica”, con la sfrontata pretesa, magari, di “fare il Sindaco”) per negare la presenza della mafia, spudoratamente e a dispetto delle pagine dedicate ad essa dalla Commissione Antimafia. Una città che, comunque, ha prosperato negli Anni Ottanta sotto il segno di quel contrabbando capace di dopare l’economia ed elargire benessere illegale a più o meno vasti strati sociali tra loro trasversali e accomunati dalla avidità che si autoalimenta, tipica del guadagno facile. Una città che oggi continua a sonnecchiare, dove la notizia di un bambino di dieci anni che confessa di avere disgraziatamente fumato uno spinello viene subito cannibalizzata dai media per essere digerita e evacuata dopo nemmeno quarantotto ore, lasciando scoperto il nervo di una condizione infantile, adolescenziale e giovanile al limite. Salvo incrociare le dita affinché nulla di eclatante accada, che nessuno se ne accorga, e affidarsi al potere taumaturgico del Piano di Zona, buono ad distribuire prebende e clientele, ma senza progettualità sociale e culturale complessiva: pura opera di spartizione, di tipo ragionieristico, dei finanziamenti regionali.
Eppure, oggi come allora, le cose buone Fasano le ha e sono tante, però non sono valorizzate e, quindi, succede che in apertura di una manifestazione elettorale a Fasano, Nichi Vendola esordisca dicendo che lui attribuisce ad ogni città delle qualità, quasi fossero degli essere umani. Per cui Torino è come se fosse sua zia e Ostuni è come se fosse uno psicoterapeuta al quale si rivolge quando è stanco e triste, vi si reca di notte fa delle lunghe passeggiate nella Terra che lo fanno star meglio. Ad un tratto, però, il buon Nichi sul palco del teatro si rende conto che si trova a Fasano e qualcosa deve pur dire. L’unico aggancio che è riesce a trovare è quello di una manifestazione che tenne qui, organizzata dalla FGCI, a ridosso della vicenda di Palmina. Trovo che sia parecchio triste, per una comunità, incistarsi nella memoria altrui grazie a episodi del genere che, certo, non vanno negati o rimossi (poiché appartengono alla coscienza collettiva, buona o cattiva che sia), ma una memoria diversa avrebbe fatto senz’altro piacere.
Cosa è successo da Palmina in poi? La città è riuscita a far tesoro di quella tragica esperienza? Temo di no e un fattore dominante, a mio avviso, è l’anestesia generalizzata che i processi economici e sociali hanno subito, ad opera non solo del fenomeno, economico, sociale e culturale, del contrabbando, ma anche di quello dei grandi appalti (molto spesso con l’incombente ombra della mafia), nonché di alcune grandi svendite del patrimonio comunitario. Impossibile non citare, infine, il saccheggio delle già esigue risorse pubbliche, perpetrato negli anni a Palazzo di Città da amministrazioni di nani e ballerine. Ecco, probabilmente Palmina, suo malgrado e quasi fosse una tragica icona, può rappresentare un ulteriore e ultimo simbolo, quello di una città “bruciata viva” che ancora non ha scoperto chi siano l’autore e il mandante, ma nemmeno se lo chiede.

Commenti

Post più popolari